Consapevole che questo breve testo avrà una validità piuttosto limitata dal momento che i dati del fenomeno che sto analizzando cambiano e anche piuttosto rapidamente, mi premeva scrivere di questo tema in quanto anche sulla base di esperienze simili che ho avuto modo di ascoltare mi sembra che la situazione finale sia quasi sempre la stessa.
A volte in molti dicono che vorrebbero vivere nel mondo dei nostri nonni, almeno lavorativamente parland, quando l'Italia si trovava nel pieno del suo boom economico. Un boom che non aveva necessariamente bisogno delle complesse strutture universitarie e della sua formazione, apparte alcune categorie come quelle ingegneristiche, giurisprudenziali o del ramo della medicina.
Eppure nonostante tutto ciò gli studenti universitari almeno fino alla prima metà inoltrata del secolo scorso sono aumentati in modo più che proporzionale, passando dai circa 70.000 degli anni '30, passando per più di 200.000 degli anni '50 fino ad arrivare alle soglie dei due milioni negli anni '70. Da qui in poi il numero ha iniziato ad essere tormentato da delle flessioni periodiche causate dall'aumento del costo dell'istruzione avanzata.
Effettivamente i millenials al termine del proprio percorso di studi secondario spesso si sono ritrovati a scegliere giocoforza il percorso universitario spinti sia da fattori endogeni (interni) che esogeni (esterni) con il risultato che non sempre le aspettative dal punto di vista lavorativo sono state soddisfatte. Capita spesso che soprattutto nelle regioni meridionali accanto al percorso formativo non si affianchi anche un'esperienza professionale principalmente di tirocinio e ciò rende i neolaureati in alcune discipline poco appetibili sul mercato del lavoro se comparati a ragazze e ragazzi che hanno frequentato in modo ottimale il liceo o istituti tecnici.
Alla luce di tutto ciò vale la pena chiedersi, ma l'università per alcune posizioni professionali è davvero così necessaria?
Fonti:
Viesti G, La laurea negata, Laterza, Roma, 2018.

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